Donne, autostima e violenza

Donne, autostima e violenza

Ieri ho scritto un post relativamente al rapporto tra la disistima che le donne hanno di se stesse e la violenza di genere.

Un post scritto di pancia che lo ha reso poco comprensibile per alcun* pertanto chiarisco:
– la stima di sé stesse non risolve le violenze sulle donne
– avere stima di sé non è una protezione sufficiente
– non avere stima di sé non giustifica le violenze
– la violenza è sempre responsabilità di chi la perpetra, non c’è concorso di colpa

Il Tizio che drogava la moglie per poi stuprarla è un mostro. Gli 80 uomini a cui la cedeva a scopo di violenza e che si organizzavano tranquillamente in chat sono dei mostri. Non ci piove. Io credo però che fermarsi al singolo, estremo, orrorifico caso di violenza non sia più sufficiente: si tratta di un atteggiamento emergenziale e non preventivo, tipico di questo Paese che tratta così ogni dramma dall’alluvione alla violenza di genere. Anche inasprire le pene e creare reati ad hoc rientra in questo atteggiamento: è tutto necessario ma la legge arriva dopo, a fatto commesso. Come si fa ad evitare che il fatto accada?

Mi piacerebbe rispondere a coloro i quali si chiedono “come mai questa donna non se n’è accorta prima, visto che non è che la violenza si manifesti di botto ma ha avvisaglie, un’escalation?”. Ecco, parlare di QUESTA DONNA significa responsabilizzare la vittima, darle una colpa, addirittura sentirsi migliori perché noi no, non ci siamo mai cascate in mano all’orco. Al più si parla di disagio psicologico, di sindrome di Stoccolma e così via.

Il problema della violenza di genere non è di una donna ma di tutte le donne. E buona parte del problema della violenza sta che non la riconosciamo come tale, tranne quando poi arriva al suo estremo.

Il complimento volgare per strada è una violenza. Il collega/amico che ci da una pacca sul culo è violenza. Svegliarsi la mattina dopo una notte di bagordi e non ricordare nulla o quasi dell’uomo nel letto accanto a noi è violenza. Uno schiaffo è violenza. Offese degradanti sono violenza. Il corteggiamento insistente è violenza. Forzare un sì è violenza. La manipolazione è violenza. “Sei solo emotiva e non sai quello che vuoi, fidati di me” è violenza. Accettare un rapporto sessuale poco voluto con un uomo perché è nostro marito/compagno/fidanzato ed in fondo cosa vuoi che sia è violenza.

Quante volte vi è successo? Di sentire quella nausea alla bocca dello stomaco, quel pizzicore dietro la nuca, quella vocetta nel cervello che ti dice che qualcosa non va ma di non ascoltarla, di passarci sopra?

Come donne siamo educate a sopportare il disagio, ad accettare il compromesso, a sottoporci alla sopportazione fisica e psicologica in virtù di non si sa bene cosa. Intendiamo essere più leggere possibili nel nostro passaggio su questo mondo, forse perché da sempre ci fanno notare che siamo il sesso debole, emotivo, piantagrane, da salvare e così, per tutta risposta, pensiamo che più sopportiamo e più dimostriamo che non è così, che siamo forti, che sappiamo cavarcela da sole. Ogni fragilità di una donna viene vista come una colpa. E questa colpa atavica noi la sentiamo dentro noi stesse, non ce ne siamo mai liberate.

A questo si aggiunge, appunto, la poca stima che abbiamo di noi. Siamo talmente abituate a sentirci sbagliate, educate a cercare una perfezione fisica, caratteriale, emotiva, materna, sessuale, che non potremmo mai raggiungere e così ci sentiamo in difetto, pensiamo di non meritare mai nulla di ciò che abbiamo, di non avere diritto a puntare al meglio. Non solo: ci viene insegnato a non fidarci di noi stesse, che siamo esagerate, che drammatizziamo, che siamo troppo lagnose. Ci convincono che statisticamente tendiamo a non cogliere benissimo la realtà che ci circonda, non ne diamo un giusto giudizio, perché ci facciamo troppe seghe mentali: una forma di gaslighting collettivo, sociale, di genere.

Ci sono centinaia di piccoli esempi quotidiani che alimentano questo schema a svantaggio delle donne. Un humus in cui siamo inserite e socialmente accettato che alla fine diviene normale. E così non riconosciamo la violenza. Di più: spesso non la riconoscono nemmeno gli uomini. Provate a chiedere ad un uomo se secondo lui fare da sesso da sbronzi è una forma di violenza. Vi dirà di no. Eppure lo è.

Si parte dalle piccole cose fino a spostare la soglia di tolleranza e trovarsi immersi nell’abisso più nero. Che poi fa notizia, scalpore, terrore, manifestazioni e scarpe rosse. Tutto giusto ma occorre spezzare questo schema prima.

Il problema è legale, statale, sociale, psicologico ma anche culturale.

La colpa della violenza è di chi la perpetra, sempre. Ed è chiaro che vanno innanzitutto educati gli uomini a non compiere mostruosità. Soprattutto vanno educati a riconoscere la mostruosità nel quotidiano e a spezzare anche loro, in prima persona, questo modello sociale di violenza di genere.

E qui che la riflessione va oltre. Come si riconosce la violenza in un sistema che la scusa, la minimizza, addirittura la sollecita, tranne quando poi non esonda nel terrore puro?

Il fatto che tali orrori capitino ad una particolare donna non la rende colpevole ma nemmeno rende quel crimine stra-ordinario, inteso come fuori dal comune o impensato: non è che noi siamo state più brave di lei o mentalmente più stabili. Viviamo tutte in un sistema comune che ci fiacca, ci opprime, ci disprezza in quanto donne. E ci vivono anche gli uomini.

In un certo senso siamo tutte delle sopravvissute. Abbiamo solo avuto culo. Per adesso.

Alice Porta

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2 pensieri riguardo “Donne, autostima e violenza

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